È da questa domanda che nasce Spine, uno spettacolo che non racconta una trama lineare, ma scava nelle pieghe di un dramma classico, scomponendolo e reinventandolo attraverso nuove lingue, nuovi corpi, nuove solitudini.
Andato in scena venerdì 28 febbraio al
Teatro Comunale di Catanzaro e sabato 1 marzo al teatro Grandinetti di Lamezia Terme per la rassegna teatrale di
AMA Calabria, “Spine” porta in scena un esperimento ben riuscito.
Prodotto da Mana Chuma Teatro, con la regia di Massimo Barilla e Salvatore Arena, la scenografia di Aldo Zucco e le musiche originali di Massimo Polimeni, “Spine” è ambientato in una locanda vuota, dove il tempo ha cristallizzato i personaggi di Lucio, Maddalena e il becchino. I tre (interpretati da Stefania De Cola, Mariano Nieddu e Lorenzo Praticò) ripercorrono le loro storie, che si intrecciano con quella di Otello, Desdemona, Iago e Cassio, protagonisti del celebre dramma shakespeariano, per dare un senso al proprio dolore riconoscendosi in quello degli altri. Tra passato e presente, le tre anime in pena, sono intrappolate in un gioco teatrale che è insieme confessione e finzione: non importa quale sia la verità, ciò che emerge è il bisogno disperato di riconoscersi, di trovare un posto nel racconto, di esistere almeno come frammento di memoria.
Lo spettacolo non è una messinscena tradizionale, ma più un laboratorio teatrale fisico e istintivo, che spazia dal dramma, alla commedia, ad una sorta di improvvisato musical. Non mancano poi i momenti di rottura della quarta parete e delle interazioni con il pubblico, che sta ai margini della locanda, tra un pallone lanciato in platea e un bicchiere di vino offerto.
La lingua è poi la peculiarità dello spettacolo: un qualcosa che cambia forma e colore per dare più forza al senso. Il sardo, siciliano, calabrese (che sono poi i dialetti degli attori) perdono il loro regionalismo per mescolarsi in una lingua dalla sonorità unica. Non manca nemmeno la mescolanza con le lingue straniere pronunciate con cadenza dialettale - pezzi di francese, inglese, spagnolo e tedesco- che rendono musicale la parlata dei personaggi.
Ma perché il titolo “Spine”? L’opera, si nutre di vuoti e di silenzi, è ruvida e imperfetta e proprio nelle sue imperfezioni trova la sua forza. Come le spine di una rosa che non ha paura di ferire chi la sfiora, le spine sono i fantasmi e i drammi dei protagonisti, che li rendono inaccessibili agli occhi del mondo esterno.
“Spine” è molto più di uno spettacolo teatrale: è un viaggio coraggioso e irregolare dentro le pieghe nascoste delle storie e delle vite, quelle zone d’ombra che spesso restano fuori dai racconti ufficiali, escluse dalla memoria collettiva. Qui la narrazione non segue un filo logico o cronologico, perché la memoria, quella autentica, non è mai lineare. È piuttosto un mosaico di frammenti scomposti, di ricordi che affiorano e si sovrappongono, di parole interrotte e voci dimenticate che chiedono di essere ascoltate.
In “Spine”, ogni personaggio porta con sé il peso di una storia che non riesce a chiudersi, che continua a risuonare nel corpo e nella voce, come una ferita che non smette di pulsare. E proprio da questo magma confuso di vissuti e omissioni nasce il messaggio più profondo che lo spettacolo intende lasciare al pubblico: solo accettando il caos delle proprie storie, solo imparando a stare dentro quel disordine fatto di luci e ombre, si può forse arrivare a raccontarsi davvero.