Dimenticate “Nirvana”, dimenticate “Mediterraneo”, “Io non ho paura”, “Happy family”. Il nuovo film di Gabriele Salvatores, “Il ritorno di Casanova”, è qualcosa di completamente diverso, come sempre, rispetto ai lavori precedenti del regista napoletano. Il film, in programmazione al Nuovo Supercinema, comincia con una scena in costume con protagonista Giacomo Casanova, il famoso avventuriero del Settecento: in realtà quello che fa Salvatores prendendo spunto dalla figura del donnaiolo veneto è di raccontare il cinema dal punto di vista di chi lo fa e quindi attraverso i dubbi e le difficoltà, insieme alla continua pressione con cui chi realizza film deve fare i conti. Ci sono i mostri personali – depressione, dipendenze, incapacità relazionali comuni a tutti -, ma ci sono anche le difficoltà nel rapportarsi con le nuove generazioni, l’ipertecnologia cui abituarsi, il giudizio del pubblico, la stampa.
Così, “Il ritorno di Casanova” in realtà è due film in uno: c'è quello che racconta di Casanova, uno sciupafemmine sul viale del tramonto interpretato da Fabrizio Bentivoglio – tratto dal racconto di Arthur Schnitzler - e quello diciamo contemporaneo che racconta del regista Leo Bernardi, col volto di Toni Servillo, alle prese con un blocco artistico e con la sorpresa della fragilità delle sue certezze, nati dalla consapevolezza degli anni che passano.
Entrambi, infatti, Casanova e Bernardi si confrontano con l’età della maturità: il primo rendendosi conto di aver perso l’allure che lo contraddistingueva – a un certo punto dice di leggere negli occhi della giovane amante un’unica parola, “vecchio” - , il secondo smarrendo la propria identità di grande regista soppiantato agli occhi del pubblico e della critica da nuovi autori emergenti, con tutto il loro carico di belle e fresche speranze.
In un continuo parallelo tra le due storie, Salvatores ci fa vedere i modi differenti di affrontare questa nuova situazione, questa realtà da parte dei due personaggi, lontani nelle epoche ma quasi contemporanei nel senso. La cosa più interessante, da parte di Salvatores – che ha scritto la sceneggiatura insieme a Umberto Contarello e Sara Mosetti – è proprio il montaggio alternato, alcune volte anche all’interno degli stessi dialoghi, con cui unisce e confronta le situazioni settecentesche con quelle di oggi. Per farlo, tra l’altro, gioca molto su luci e colori: con fotografia di Italo Petriccione, il film “settecentesco” opta per un’illuminazione per così dire naturale, quindi il buio della sera è illuminato esclusivamente da candele – per come poteva essere all’epoca -, quello dei nostri giorni è invece concentrato su un anacronistico bianco e nero, quasi a sottolineare la paradossale contemporaneità fra le due storie e il “superato” insito nella trama complessiva.
Di fianco a Bentivoglio e Servillo, sono da sottolineare le presenze di Sara Serraiocco nella parte della giovane Silvia che rappresenta per Leo Bernardi la vita vera di cui avere paura, oltre lo schermo, di Natalino Balasso, in quella del montatore del film – pilastro nella realizzazione dello stesso, come accade nella realtà -, e di Antonio Catania nel ruolo del produttore. Non possono non essere citati neanche Elio De Capitani (il marchese Celsi), e Alessandro Besentini e Francesco Villa, noti ai più come il televisivo duo – qui separato – di Ale e Franz.
(Multi Cunti per Area Teatro - Catanzaro Centro)