Quando il cinema parla di cinema, non ce n’è per nessuno. Anche se lo fa quasi da contorno, come accade con Sam Mendes in “Empire of light”, in programma fino a lunedì 13 al Nuovo Supercinema. Per intenderci, Sam Mendes è il regista di “American beauty”, “1917” ed “Era mio padre”, per citarne qualcuno, quindi mica uno così. E un omaggio all’arte cinematografica, a questo punto della sua carriera, ci stava tutto. Mendes, anche autore della sceneggiatura, ha scelto però di farlo parlando della decadenza delle sale, iniziata già negli anni ’80, quando è ambientato il film, quando la TV via cavo ha preso il sopravvento e ha dato il via allo svuotamento di quei templi, preannunciando la catastrofe delle piattaforme di oggi.
L’Empire del film, è un multisala di una città della costa inglese, sorge proprio sulla spiaggia e ha addirittura una sala concerto con spettacolare vista sul mare: peccato che quell’ala della struttura così come le sale 3 e 4 siano ormai chiuse e abbandonate, vissute solo dai piccioni. Anche i dipendenti del cinema tirano a campare: sono un direttore fedifrago (viscido, interpretato da Colin Firth), una vice direttrice con problemi di salute mentale (una straordinaria Oliva Colman, più passano gli anni più la sua bravura diventa mostruosa), un proiezionista saggio e di poche parole (Toby Jones), e un manipolo di giovanotti che sbarcano il lunario tra popcorn, mars e matrici di biglietti. L’unica parentesi di paradiso potrebbe essere l’anteprima di “Momenti di gloria” – “Chariots of fire” di Hugh Hudson -, quando il sindaco e varie altre autorità – tra cui anche Paul McCartney – arrivano all’Empire, ma non finirà proprio così (e non vi diciamo perché).
Fuori da quelle sale – la 1 e la 2 sono ancora in piedi nel loro splendore -, il mondo sta cambiando: è l’epoca della Thatcher, neanche l’Empire non può sottrarsi alla violenza degli skinheads, e le persone di colore devono sopportare soprusi e finanche pestaggi. Stephen (Michael Ward, bellissimo) sembra non avere nulla in comune con Hillary (Colman) e invece: sono entrambi degli ultimi, dei reietti, destinati a un legame che va oltre le distanze e anche la semplice passione. Ciò che li unisce è il cinema, ma loro questo non lo sanno, o almeno lo ignorano all’inizio del film. È Norman, l’anziano e triste proiezionista, a farlo capire prima di tutto allo studente di Architettura: inizia Stephen alla magia delle pizze, al fenomeno Phi – la percezione illusoria del movimento dato dalla successione delle immagini -, a quella ingannevole vita proposta dal cinema come vera, mentre è in realtà solo un fascio di luce, e alla distesa di ritagli di giornale e manifesti dei grandi, tra attori e registi soprattutto del passato che campeggia nella sua cabina di proiezione. È un messaggio che passa anche da Hillary che un film intero non lo ha mai visto, e se lo concede solo alla fine, chiedendo a Norman di proiettarle un titolo qualunque di quelli in programmazione: è il bellissimo “Oltre il giardino” – “Being there” di Hal Ashby -, con un eccezionale Peter Sellers che ripete e Mendes ce lo mette pure in pancia, casomai non l’avessimo capito bene, che “La vita è uno stato d’animo”, “Life is a state of mind”. E se lo dice il cinema…
(Multi Cunti per Area Teatro - Catanzaro Centro)