Una distesa di fiori e lumini accesi, uno scenario funebre di grande impatto che, per la durata di qualche minuto, non può che portare lo spettatore a guardare dentro di sé.
Fin dal primo istante, del resto, La Plaza afferma chiaramente il suo obiettivo: spingere chi guarda a porsi delle domande, ma soprattutto a interrogarsi in questo modo sul futuro del teatro. Sì, perché La Plaza fondamentalmente parla di teatro, di fare teatro e di quale senso possa ancora esserci nel suo rapporto con lo spettatore.
Quest’ultimo è infatti nelle intenzioni guidato a immaginarsi come parte integrante, per quanto sempre in qualità di pubblico, di uno spettacolo grandioso “in scena da 365 giorni in 365 teatri nel mondo”, come indicano i soprattitoli proiettati sulla parete di fondo.
Il ruolo di chi guarda è quindi costretto a sdoppiarsi: in totale assenza di parole dette, mentre la musica di sottofondo incalza e decresce ritmicamente, la scena cambia, il palco si trasforma in una piazza dove un gruppo di performer rappresenta scene di ordinarietà urbana, mentre sul telo proseguono le indicazioni rivolte allo spettatore su cosa e come pensare, senza alcun nesso con ciò che accade oltre il sipario.
L’effetto è volutamente straniante: se la cultura è diventata la rappresentazione del nulla, come dichiarato dai soprattitoli, la stessa “piazza” in scena è anonima, così come lo sono i personaggi ritratti, coi volti irriconoscibili completamente coperti da maschere prive di qualsivoglia sembianza.
E’ la fine delle identità, il ricordo vago di memorie del passato – attraverso il testo scritto -, l’agghiacciante indifferenza e spettacolarizzazione di una violenza, della morte. Solo quest’ultima fa cadere la maschera e rivela chi giace esanime, seppure al centro delle attenzioni di chi rimane, telecamere e microfoni sempre accesi, pronti a riprendere e osservare indiscreti.
Allo spettatore, perplesso, che anche al Politeama è rimasto al suo posto ben oltre gli applausi finali, rimangono l’imprevedibilità del futuro, partendo dalla negazione della sua stessa immaginazione e, soprattutto, il senso di morte che pervade tutto lo spettacolo, fin dal primissimo momento cimiteriale. Molto Tadeusz Kantor, molto teatro.