Alla fine della balconata di Bellavista, scendendo verso la “strada nuova”, vi era un modesto cancello di ferro (che i vecchi chiamavano cancello di Arbitrio od anche cancello di Perrone) che doveva la sua celebrità al fatto che accanto ad esso all’inizio dell’autunno veniva eretto il più noto è più affollato “pagghiaru” di Catanzaro
Il pagghiaru era una capanna di frasche e tavole nella quale, di sera, alla luce tremolante di un lume a petrolio (che negli anni più recenti era stato sostituito da una lampada ad acetilene) venivano consumati cesti su cesti di fichi d’india, il frutto multicolore, povero ma squisito, che il poeta Sinatora annoverava, assieme alla villetta e all’illustrissimo morzeddu, fra le “tre cose capitali” che fanno bella Catanzaro.

Alla metà di settembre i venditori ambulanti di fichi d’India cominciavano a girare per vicoli e piazze portando panieri colmi di frutti e gridando: “I gelati, i gelati“. Quando si avvicinava un compratore il “ficundianaro” si accoccolava a terra e cominciava rapidamente a sbucciare, con un coltellino affilatissimo, frutto dopo frutto.

Racconto uno straniero innamorato della Calabria: <>.

Nelle tepide serate del dolcissimo autunno catanzarese allegre comitive si dirigevano verso i pagliai (quello di Bellavista o di Pratica o della Madonnuzza o de sutta a villa) prendevano posto sulle rustiche panche e cominciavano a consumare, ridendo e scherzando, incredibili quantità di fichi d’india rossi, bianchi, gialli, verdi, violacei. Non vi erano distinzioni di ceti; la gentildonna sedeva accanto alla sartina, l’avvocato o il medico accanto il vetturale. Anche nei pagliai, Catanzaro dava prova della sua autentica democraticità.

I fichi d’india venivano venduti ad un prezzo irrisorio che consentiva anche ai più poveri di saziarsi con pochi soldi. Ricordo di aver visto un portalettere (che era molto noto perché era il campione cittadino di lotta greco romana) divorare, uno dopo l’altro e senza interruzione, oltre cento fichi d’india. Quando io ero bambino i fichi d’india venivano ancora venduti cinque per un soldo e cioè un centesimo ciascuno. Il che significa che con una lira si avevano cento fichi d’india e che con le cento lire che oggi normalmente si pagano per un solo fico d’india allora se ne sarebbero avuti diecimila!
È da avvertire che i consumatori più prudenti allorché superavano un certo numero di frutti usavano alternare fichi d’india e fichi.

(“CATANZARO, vicoli strade piazze contrade” Enzo Zimatore. Antonio Carello editore - 1988)