È sicuramente un film da vedere, “The son”.  In programmazione fino a lunedì prossimo al Nuovo Supercinema, il lungometraggio del francese Florian Zeller è una toccante tragedia famigliare che lo spettatore, dopo i titoli di coda, si porterà dentro a lungo. Sì, perché se le intenzioni sono quelle da parte di Zeller, il regista ha fatto centro: sebbene lo svolgimento della trama sia tutto chiaro fin dalle primissime scene del film, rimane un forte senso di angoscia che accompagna inesorabilmente chi lo ha visto, anche fuori dalla sala cinematografica. 

Con protagonista Hugh Jackman – candidato ai Golden Globe come migliore attore per questa parte -, The son è la versione cinematografica dell’omonima opera teatrale scritta dallo stesso Zeller, che rientra nella trilogia aperta da The Mother e proseguita con The Father che nella sua versione cinematografica, con protagonista Anthony Hopkins, ha riscosso notevole successo di pubblico e di critica. 

The son, a differenza del suo precedente The Father, sembra quasi subire la stessa angoscia proiettata sullo spettatore: a soffrirne è la trama, con i suoi dialoghi e quelle finezze narrative con cui il precedente film di Zeller ci aveva deliziati. Qui sono completamente assenti. L’impianto teatrale rimane presente anche nella scelta delle scene: le riprese sono quasi esclusivamente in interno e questo fa sì che New York o Parigi – la prima per il film, la seconda per la pièce -, siano interscambiabili poiché il testo potrebbe essere ambientato dappertutto. Anche i personaggi che ruotano attorno alla famiglia allargata protagonista della pellicola sono pochi e tutti, ci si accordi il termine, en passant. 

Sembra quasi che di fronte al macigno dell’anima narrato, non analizzato, neanche la scrittura possa più di tanto, al punto da rimanere completamente paralizzata di fronte agli eventi. Eppure, nonostante ci si sarebbe aspettati qualcosa in più – e sì che con The Father l’asticella era davvero molto alta -, The son è magnetico e inchioda letteralmente alla poltrona. Forse perché la paura di un genitore di vedere il proprio figlio stare male – il ragazzo soffre di depressione -, ed essere incapace di poterlo aiutare, è comprensibile anche a chi genitore non è. 

Forse merito di Jackman, alle prese con un ruolo che più drammatico di così non è possibile – ma che non convince molto, ad essere onesti -, e di Laura Dern, bravissima, sempre più elegante e solida nella sua recitazione. Ma, volete sapere la verità vera? Loro, sì, sono bravi eccetera eccetera, ma il merito è tutto del piccolo grande Zen McGrath, il figlio del titolo: i suoi occhi sono di un dolore indescrivibile, impossibile non lasciarsi travolgere dalla sua dolcezza. Sarà un interprete di cui sentiremo parlare, e tanto. 

Da sottolineare infine una particina per Anthony Hopkins che dona agli spettatori, forse per buon augurio a Zeller visto il precedente, un cammeo nel ruolo, guarda caso, del padre/nonno. E lui merita, sempre. 

(Carmen Loiacono/MultiCunti per Area Teatro - Catanzaro Centro)