È un film vecchio stile, ben lontano dai ritmi cinematografici cui siamo abituati, ma “Le vele scarlatte” vale davvero la pena di essere visto. In programmazione al Nuovo Supercinema in questo fine settimana, il film diretto dal casertano Pietro Marcello – quello di “Martin Eden” per intenderci -, è lento, ma di quella lentezza da assaporare: del resto rispecchia fedelmente la trama raccontata. Tratto dall’omonimo romanzo del russo Alexandr Grin e presentato al Festival di Cannes e alla Festa del cinema di Roma, il film ripercorre la vita di una famiglia che sopravvive alle macerie del primo dopoguerra, ambientata nella Francia rurale settentrionale. Ed è proprio quella ruralità, quella durezza degli animi che le riprese, semplici, talvolta quasi amatoriali, ripropongono fedelmente. 

Per contrasto, la femminilità e il fiabesco emergono prepotenti in un mondo che vorrebbe entrambi vittime e succubi del patriarcato: Juliette – la convincente Juliette Jouan -, la vediamo crescere fin da bambina come può, con un padre sempre presente, orfana di madre, affiancata dalla guaritrice Adeline – Noémie Lvovsky -, che la introduce ai piccoli riti magici e alla fiera indipendenza delle donne. La vera svolta, per Juliette, è l’incontro con la maga dei boschi – Yolande Moraeu -, che le predice che delle vele scarlatte arriveranno dal cielo per portarla via. Succederà così, con rocamboleschi atterraggi aerei e l’arrivo del fascinoso Jean – l’attore francese del momento, Louis Garrel – che le farà scoprire una vita più dolce, diversa da quella che aveva fino ad allora conosciuto. 

Mirabile la fotografia: il film si apre direttamente con delle immagini di archivio, recuperati i colori, che si intersecano riprendendone le tonalità e gli ambienti, con quelle di finzione de Le Vele scarlatte – come per ogni film di Pietro Marcello -, ma non solo, la camera da presa gioca con angolazioni e riprese particolari, soffermandosi di continuo su dettagli sorprendenti. Le mani stesse del protagonista Raphael – un bravissimo Raphaël Thiéry -, grosse e segnate dalla guerra ma anche dal suo lavoro di falegname, dicono più di cento parole, riuscendo a dare il senso pieno della sofferenza, del sacrificio, dell’amore nonostante tutto. 

A dispetto della crudeltà della vita – che deve sempre fare i conti con la morte, le mancanze e le atrocità di cui lo stesso essere umano è capace -, la natura, che è il femminile per eccellenza, prosegue imperterrita la propria missione: la poesia è unica come solo quella degli outsider – di cui il film è pieno – può essere.

(Carmen Loiacono/Multi Cunti per Area Teatro - Catanzaro Centro)