È una delle opere più drammatiche di Giacomo Puccini e, nella versione scelta per i soci dell’Adol, del 2008 diretta da Riccardo Chailly per la regia di Luca Ronconi, la tragicità coinvolge chi ascolta – e guarda – in maniera dirompente, tanto che la commozione è un passaggio a dir poco obbligato. 

“Suon Angelica”, il secondo momento del Trittico del grande compositore toscano, strappa letteralmente le lacrime: lo sanno bene gli iscritti all’associazione Amici dell’opera lirica, che giovedì hanno assistito all’introduzione della stessa da parte di Domenico Maiolo, prima della proiezione dell’intera opera nelle sala Imes di Palazzo Fazzari. 

Insieme a “Il Tabarro” e “Gianni Schicchi”, Suor Angelica fa parte di quel terzetto di opere di un unico atto – il Trittico, appunto, oggetto di altrettanti appuntamenti della Adol -, realizzato da Puccini probabilmente seguendo l’onda del successo riscontrato da Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, che è appunto costituita da un solo atto. 

Nella sua introduzione, Maiolo non ha potuto non soffermarsi su qualche curiosità in merito alla composizione di Suor Angelica: la trama – che racconta di una nobile donna costretta a chiudersi in convento per espiare la colpa di aver avuto un figlio senza essere sposata, e che scopre della morte del bambino a due anni dalla tragedia, decidendo di togliersi la vita -, è ispirata a un fatto realmente accaduto, raccontato al compositore dalla sorella Iginia, madre superiora di un convento nei pressi di Lucca. «Puccini fu molto colpito da questa storia – ha spiegato Maiolo -, tanto da chiedere di essere ospitato dalla comunità religiosa diretta dalla sorella. Gli assegnarono proprio una cella. Lì lui si confrontò con la realtà delle monache, ed infatti l’opera si apre sulle piccole mancanze che si confessano tra di loro». 

Maiolo si è anche soffermato sull’opposizione tra le personalità presenti nell’opera: «Una delle giovani monache – ha argomentato -, confessa di voler vedere un agnellino, lei che era pastora. È una figura in contrasto con la storia di Angelica, che vorrebbe da parte sua vedere suo figlio. Ma lo scontro maggiore è con la figura della duchessa, zia della protagonista: il suo arrivo è scandito da un incedere molto pesante della musica, segnata dai pizzicati. Addirittura tutta l’orchestra ha una nota talmente lunga durante la quale la nobile ha il tempo di attraversare l’intero palcoscenico: Puccini la vede come un serpente». Questo perché la duchessa è senza pietà nei confronti di Angelica: mentre lei si occupa delle questioni economiche – la sua visita al convento è perché la monaca firmi alcuni documenti relativi al patrimonio famigliare, la notizia della morte del bambino è in secondo piano -, la protagonista ha un solo compito, espiare le sue colpe. 

Per Puccini la soluzione finale, con il suicidio, un peccato atroce per una persona di Chiesa, fu un problema serio: «Si rivolse così alle stesse consorelle di Iginia – ha raccontato Maiolo in conclusione -, chiedendo loro come chiudere l’opera, che non poteva finire con una colpa così grave. Le monache, emozionate dall’ascolto, gli consigliarono di salvare Angelica, di redimerla. Così Puccini decise che, in punto di morte, dopo aver chiesto alla Vergine una grazia che la alleggerisse dall’atto di essersi volontariamente uccisa, Angelica avrebbe avuto una visione in cui poter riabbracciare il proprio figlio».

(Carmen Loiacono/Multi Cunti per AreaTeatro - Catanzaro Centro)